Rielaborazione da:“Società partecipate: più politica e più management. Con attenzione al cittadino”
[Articolo pubblicato su “Il Salentino” del 20/04/2009]
Una questione di grande importanza nell’economia nazionale e nella Pubblica Amministrazione è quella delle aziende di servizi pubblici di proprietà degli Enti locali, definite “società partecipate” data la loro natura giuridica sotto la forma di società di capitali e la proprietà di tutto o di parte del loro capitale in capo a Comuni e Provincie. Un discorso più ampio andrebbe fatto sulle società partecipate in generale, anche quelle statali e regionali, ma in quest’articolo (per ragioni di spazio ma anche di efficacia dell’analisi) pongo l’attenzione sull’ambito locale.
Una grossa fetta delle società in esame è a totale partecipazione pubblica, cioè il capitale è interamente di proprietà dell’Ente locale.
Queste società, di solito nella forma di s.p.a. (società per azioni) o s.r.l. (società a responsabilità limitata), forniscono servizi agli Enti proprietari in base ad un affidamento da parte degli stessi e secondo delle regole precise che la legge ha progressivamente fissato. Una totale o maggioritaria partecipazione dell’Ente nel capitale della società garantisce la possibilità di un affido diretto (“in house”) di servizi pubblici senza la necessità di avviare una gara di selezione pubblica, anche se nel secondo caso occorre comunque procedere alla nomina del socio privato mediante selezione pubblica. Questo avviene in quanto tali società vengono considerate “parte dell’Ente proprietario”, il quale deve risultare beneficiario della quasi totalità delle attività svolte da esse e deve esercitare un controllo su di esse come fossero settori dell’Ente stesso. Tra l’altro quest’impianto è stato soggetto a numerose critiche e volontà di cambiamento (basti pensare alle misure proposte dall’ex Ministro Lanzillotta) perché definito “lesivo della concorrenza”.
L’opportunità di esternalizzare determinate attività mediante l’affido a queste società trova radici sia nella carenza di personale all’interno dell’Ente (elemento che ne impedisce di fatto l’esecuzione in economia) sia nell’esigenza di maggiore flessibilità, competenza, efficienza ed efficacia che una struttura aziendale sul modello privatistico, seppur di proprietà pubblica, può garantire.
La figura della società partecipata si presenta come moderna discendente delle vecchie “municipalizzate”, modello che entrò in crisi per via della cattiva gestione e dei risultati negativi che essa produsse. Non mi soffermo ad analizzare l’evoluzione normativa sull’argomento, che potrebbe partire dai primi del Novecento, in quanto il senso dell’articolo è strettamente economico-manageriale, un parere sulla grande questione della gestione di queste aziende. Comunque vari sono stati gli interventi normativi negli anni Novanta, culminati nell’importante regolamentazione da parte del d.lgs. 267/2000 (TUEL), artt. 112 e ss.
La questione nodale del discorso va posta sulla corporate governance di queste società. Cioè sulle modalità di governo, di decisione e gestione. Perché? L’Ente locale è nello stesso tempo il proprietario e il beneficiario (trasposto nei cittadini) dei servizi pubblici. La società, per sua natura, è orientata ai risultati e all’efficienza, ma si trova a dover erogare servizi pubblici verso l’Ente che deve tutelare l’interesse dei suoi cittadini, pur essendo proprietario (socio) e, dunque, avendo una necessità di orientare la gestione ai risultati. Da una parte orientamento alla massima soddisfazione dell’interesse dei cittadini, massima quantità e qualità dei servizi, dall’altra orientamento all’efficienza e, almeno, al pareggio di bilancio.
Come direbbero i miei maestri di management pubblico, è il famoso dibattito committenza-proprietà che è connaturato alla questione.
Osservando l’andamento delle società partecipate in Italia, dove ce ne sono anche diverse di grandi dimensioni (anche quotate in Borsa), si può vedere come molte di esse abbiano finito per divenire carrozzoni inefficienti asserviti a discutibili decisioni di alcuni politici, generatori di sprechi notevoli, spesso utilizzate per assumere con maggior flessibilità una quantità di lavoratori insostenibile per il loro bilancio. Molte fra esse sono giunte a produrre perdite notevoli e guai seri per le casse degli Enti, chiamati a ripianare le perdite e garantire i creditori a causa della situazione di dissesto delle società.
Nonostante questo, però, non sono sfavorevole ad un rapporto di fiducia tra politici e manager, purché si tratti di manager capaci. Mi spiego. Il futuro della corporate governance di queste società, per risolvere i conflitti o le degenerazioni che negli anni il rapporto committenza-proprietà (aggravato da un cattivo uso delle decisioni politiche) deve essere orientato secondo questa condizione: più politica e più management. Sono profondamente convinto che le società partecipate possano assumere un ruolo sempre migliore, orientato al miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico e ad una contemporanea corretta gestione aziendale. Ad una condizione: che la politica riscopra il suo “alto” valore, il suo compito più nobile. In questo senso la politica deve saper esprimere una visione innovativa di lungo periodo, anticipando e interpretando il cambiamento mediante un disegno strategico di ampio respiro in grado di dare risposte ai bisogni emergenti delle comunità amministrate.
Le Amministrazioni devono essere capaci di definire una direzione di marcia per le società partecipate, orientate ad una gestione efficiente ma al contempo diretta alla qualità dei servizi erogati ai cittadini, e operare un opportuno controllo sull’effettiva attuazione. E questo ruolo, la politica (che in questo caso rappresenta la proprietà), lo deve tradurre nella nomina di un management di fiducia, secondo un rapporto virtuoso e fisiologico tra politica e management, capace in concreta autonomia di tradurre a sua volta in atti di gestione le linee guida, l’indirizzo strategico definito. Per realizzare questa visione, quindi, è necessaria più qualità nell’azione politica e più qualità nel management.
Tutto questo nulla ha a che fare con la condizione dell’influenza politica sulle decisioni dell’impresa. Anzi, come detto, è l’unica via per salvaguardare il ruolo alto della politica, l’interesse dei cittadini e la buona gestione.
In ultimo, ma prioritariamente in termini di importanza, occorre dare più forza al cittadino-utente, perché possa avere una sicura tutela mediante, ad esempio, meccanismi ben strutturati di rimborso in caso di performance a livelli inferiori agli standard definiti, e perché possa svolgere un ruolo determinante in termini di corretta informazione e di partecipazione, mediante una valutazione incisiva dei servizi. Queste tesi sono sostenute con forza dai più grandi studiosi della materia e, tra l’altro, miei maestri. In particolare il Prof. Valotti e il Prof. Longo, Università e SDA Bocconi.
Più politica, più management e più cittadino: ecco le mie direttrici per una svolta nella governance delle società partecipate.
l’argomento è molto delicato e in costante evoluzione normativa, basti pensare alle novità introdotte dal d.l. 112/2008 convertito nella l. 133/2008 che hanno fortemente limitato il ricorso a tale strumento]