Un’Economia Civile per il bene comune

(Articolo pubblicato su “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14/03/2020)

Vivere un periodo di “crisi”: questa generazione può ben dire di esserci abituata. Come se non bastassero le conseguenze dirompenti di una crisi economica che, a partire dal 2008, continua a produrre effetti in diverse aree geografiche del Paese e del mondo, in questi mesi viviamo l’emergenza sanitaria legata al diffondersi dell’epidemia da Coronavirus. Tale emergenza sta avendo ed avrà ricadute pesantissime in termini di finanze pubbliche, di dinamiche speculative e di ulteriori crisi economiche in un quadro già debole. La radicalità dei provvedimenti messi in campo dagli Stati più colpiti dall’ultima emergenza, come l’Italia, sono il segno della misura degli impatti che uno scenario più grave potrebbe produrre.
In ogni caso, in periodo di crisi e di emergenza, riflettere aiuta ad allargare l’orizzonte di consapevolezza: una crisi non è mai solo economica, finanziaria, sanitaria, ecc. Una crisi è anche e soprattutto sociale. Crisi di relazione, con se stessi e con gli altri, crisi di fiducia, interrogativo su “chi o che cosa saremo” dopo che la crisi sarà passata, riflessione sulla possibilità che le dinamiche economiche, politiche e sociali che attualmente governano il mondo possano essere superate per garantire migliori condizioni di vita alle popolazioni mondiali. Ci accorgiamo di essere ancora più deboli e vulnerabili, di aver bisogno degli altri e di vivere all’interno di una rete interconnessa; usciamo fuori dagli schemi, anche quelli ideologici, avvertiamo una maggiore spinta a dare un contributo solidale, a collaborare all’organizzazione di iniziative collettive, a cooperare.
In questo scenario, segnato peraltro dalla presenza di ulteriori forti pressioni e tensioni al cambiamento legate ai temi dei cambiamenti climatici, della stagnazione economica a fronte di dinamiche speculative, della concentrazione della ricchezza mondiale, dell’aumento dello spreco a fronte di una povertà ancora molto presente, della diffusione di sentimenti di paura e di chiusura, la “one best way” non può più fornire le risposte che garantiscano condizioni di sviluppo, di benessere e di equità. Il “mainstream” secondo il quale il mercato predilige e incentiva una sola grande tipologia di impresa, una principale forma di banca, un modello-tipo di organizzazione sociale e così via, si infrange contro i suoi stessi limiti che questa realtà complessa fa emergere con estrema durezza.
È tempo che la declinazione di alcune concezioni (utilitarista, liberista, ecc.) che hanno guidato molte dinamiche economiche fino ai giorni nostri e che hanno finito per identificare le persone come “massimizzatori di utilità”, il profitto come fine e non come mezzo, credendo di poter misurare il benessere globale solo in termini di PIL, di reddito pro-capite ed altri indicatori di natura quantitativa, lasci definitivamente spazio ad una nuova epoca fondata su un’“economia civile”, le cui finalità riguardano la sfera del bene comune.
Il “bene comune” è diverso dal “bene totale”. Il primo riguarda l’intera sfera della vita dell’uomo, delle sue relazioni, della sua qualità della vita, in sostanza accoglie la dimensione qualitativa accanto a quella quantitativa. Il secondo, invece, è rivolto essenzialmente a massimizzare quest’ultima.
Il concetto di bene comune era, in realtà, presente nei fondamenti dell’economia di mercato, ma l’avvento della concezione utilitarista e poi il diffondersi del pensiero liberista puro hanno snaturato la stessa economia di mercato con il risultato di aver contribuito a generare, certamente, la più grande quantità di ricchezza di tutti i tempi ma, al contempo, lo scenario che oggi, con urgenza, siamo chiamati a modificare.
Consapevoli che la crescita economica sia condizione necessaria ma non più sufficiente, possiamo sostenere che è, quindi, tempo di realizzare finalmente un’economia civile, “l’altra via” dell’economia di mercato che definisce la persona non solo come massimizzatore di utilità ma anche come “cercatore di senso” e non misura il benessere di un popolo solo con indicatori di natura quantitativa (es. PIL). Una concezione che, accanto allo scambio di equivalenti (vendo beni e servizi in cambio di una prestazione di valore corrispondente), attuale concezione “mainstream” di cui si è già detto, si basi sui pilastri della responsabilità (non solo rispetto a ciò che faccio, ma anche rispetto a ciò che non ho fatto ma che avrei dovuto fare), della generatività (e ri-generazione), della inclusività, della fiducia, della cooperazione, della reciprocità. Se ne descrivono, di seguito, i principi salienti, tratti dal “manifesto dell’economia civile” (si vedano a tal proposito: A. Genovesi, 1713-1769, e gli economisti contemporanei S. Zamagni, L. Becchetti, L. Bruni).
L’economia civile riconosce, dunque, centralità alla persona, collocando le proprie radici nell’Umanesimo civile e nell’Illuminismo del nostro Paese: la persona, mai ridotta a mero fattore di produzione, realizza tramite il lavoro le proprie più profonde aspirazioni. Riconosce, altresì, l’importanza delle altre forme di impresa e di attività economica, anche non profit, accanto all’impresa capitalistica (biodiversità delle forme d’impresa, con pari dignità dell’impresa cooperativa, dell’impresa sociale, della società benefit, ecc.). Esistono imprese che mentre producono ricchezza distruggono valore e sottraggono risorse alle popolazioni e ai territori in cui operano (per es. attività molto inquinanti, azzardo, armi, ecc.). In questo senso l’economia civile sostiene l‘impresa civile, impresa per l’uomo, della quale per esempio A. Olivetti (1901-1960) è stato grande interprete e pioniere e nella quale la creazione di valore economico si coniuga con la creazione di senso, la qualità delle relazioni, la sostenibilità ambientale e sociale. Incentiva l’eguaglianza e l’inclusione sociale, promuovendo la coesione sociale attraverso la ri-generazione di chi si trova ai margini.
L’economia civile distingue in maniera profonda l’utilità dalla pubblica felicità: l’utilità può essere massimizzata anche individualmente, in piena solitudine (cfr. concezione utilitarista), ma per una massimizzazione della pubblica felicità è essenziale la relazione. Accanto allo scambio di beni privati e di beni pubblici divengono, dunque, fondamentali la produzione e il consumo dei c.d. “beni relazionali”, quali la fiducia, l’amicizia, l’amore, l’impegno civile, i servizi alla persona. L’intuizione dell’economia civile è di indirizzare in questa direzione il surplus del settore terziario (il quale è destinatario del surplus del settore secondario che, a sua volta, riceve il surplus del settore primario).
L’economia civile crede nei principi alla base della finanza ad impatto sociale, mutualistica e popolare.
In questa visione tutta la società deve farsi carico del welfare: il modello economico-sociale “bipolare”, tipico della modernità e basato su Stato e mercato, deve divenire un modello “tripolare” che, accanto alle predette due forze prevede la presenza di una terza forza che, insieme alle altre due, coopera per il conseguimento del bene comune e del ben-essere della società: la comunità. In questo modello di “welfare circolare”, basato sul pilastro della “sussidiarietà circolare”, il terzo settore non recita più un ruolo di gregario, ma si pone allo stesso livello degli altri attori principali del sistema economico-sociale nell’individuazione dei bisogni e nella costruzione di policy e soluzioni.
Le città, quindi, oltre che smart city, divengono luoghi di inclusione e di generatività per il bene comune e la pubblica felicità, luoghi dove la comunità sperimenta il ben-essere e il ben-vivere.
L’economia civile, infine, sostiene e premia i percorsi virtuosi (su premi e virtù si veda G. Dragonetti, 1738-1818), a partire dalla cura dell’ambiente, pilastro fondamentale al quale sono strettamente connessi gli altri temi legati al welfare, alla salute, alla povertà, al ben-essere e al ben-vivere. Nell’ottica di un vero sviluppo sostenibile, occorre quindi farsi carico della cura del patrimonio naturale e artistico, con attente politiche di prevenzione e di tutela, al fine di un crescente miglioramento della relazione con la terra, che è viva e reagisce con forza alle aggressioni prolungate nel tempo.
In definitiva, anche al termine di quest’ultima crisi, occorrerà ricostruire e ricentrarsi. Non è più tempo di rinchiudersi nell’individualismo, in economia come nella società. È tempo di costruire, tutti insieme, in chiave civile, la nostra casa comune di domani.

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