(Articolo pubblicato su “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20/11/2014)
L’accorpamento di gran parte dei Comuni d’Italia è un’ipotesi che sta generando reazioni contrapposte nei diversi attori in campo. Nella disamina di quest’argomento occorre procedere con delicatezza, equilibrio e consapevolezza, cercando di analizzare in modo responsabile le paure che naturalmente emergono al solo pensiero di poter “perdere” una delle cose più importanti: la propria identità.
In Italia vi sono 8.057 Comuni. Il 70% di essi, in media, ha una popolazione al di sotto dei 5.000 abitanti. L’idea, al centro del dibattito pubblico da svariati anni, è quella di pervenire ad un accorpamento dei Comuni rientranti in tale categoria. Anche l’ultimo Commissario per la spending review Carlo Cottarelli ne ha sottolineato l’urgenza. Dello stesso tenore le dichiarazioni del presidente ANCI Piero Fassino. C’è anche chi ha proposto un accorpamento per i Comuni con popolazione al di sotto dei 15.000 abitanti, ma immagino sia più un’ipotesi ideale che una concreta possibilità.
Occorre, a questo punto, allargare la prospettiva e considerare il quadro attuale e previsionale in riferimento alle relazioni esistenti tra servizi erogati dagli enti locali, aspettative sulla qualità degli stessi da parte dei cittadini-utenti, finanza locale (quantità e provenienza di risorse su cui contare nella strutturazione dei servizi) e relativa dotazione di risorse umane. In particolare, negli ultimi anni, tra regole alquanto discutibili del patto di stabilità interno, quasi totale azzeramento dei trasferimenti da Stato centrale e livelli intermedi, nonché blocco di fatto delle assunzioni di personale, si è pervenuti ad un disegno del Comune quale unità aziendale che deve cercare sempre più nell’autonomia impositiva (tributi locali) e in altre forme, comunque a carattere autonomo, le risorse per garantire servizi di qualità. Tutto questo accade mentre le aspettative sulla qualità degli stessi servizi, da parte dei cittadini, cresce parallelamente alla consapevolezza (finalmente!) che qualsiasi attività delle amministrazioni pubbliche deve avere sempre quale finalità principale la soddisfazione dei bisogni della comunità amministrata mediante un’adeguata rappresentazione degli interessi pubblici, tradotta poi in azioni e politiche mirate.
Sembra, dunque, scontato chiedersi: come potranno, oggi e domani, i Comuni di piccole dimensioni far fronte ad un simile scenario? Come potranno, i cittadini dei diversi Comuni, dai 36 abitanti di Pedesina ai 2,8 milioni di abitanti di Roma, accedere agli stessi servizi locali e con pari qualità? A tale quesito si è tentato, alcuni anni fa, di rispondere con una soluzione istituzionale che potremmo definire prudente e, al tempo stesso, pesante: si è infatti incentivato il ricorso alle Unioni dei Comuni. Questa formula, che ha previsto la costituzione di un vero e proprio ente ex-novo al quale “prestare” personale e risorse per la gestione associata di taluni servizi e funzioni, nella maggior parte dei casi non ha mai spiccato il volo. Sempre a causa delle motivazioni descritte in precedenza, infatti, molte Unioni dei Comuni hanno di fatto prodotto un aggravio di procedure non potendo disporre, al contempo, di adeguate risorse e non raggiungendo le “dimensioni di scala” minime affinché l’obiettivo della gestione condivisa dei servizi producesse una riduzione dei costi medi unitari degli stessi. Inoltre, mantenendo inalterati i rispettivi centri decisionali (amministrazioni componenti l’Unione), con le rispettive singole visioni, spesso l’attività del nuovo ente ha subito un costante e progressivo rallentamento. In sostanza, in molti casi il risultato raggiunto è stato quello opposto rispetto alle intenzioni.
Un’altra soluzione, che può essere definita “intermedia”, messa in campo in questi anni ma che non ha avuto ancora piena attuazione, è la gestione associata delle funzioni: in sostanza si è cercato di far optare, ai Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, per la permanenza nelle Unioni dei Comuni (per chi ne fosse già parte) o per la costituzione di un’Unione speciale ai fini della gestione associata delle funzioni fondamentali.
Oggi, quindi, appare forte l’intenzione di procedere sul versante di un vero e proprio accorpamento tra Comuni con meno di 5.000 abitanti. Contro questa possibilità, che produrrebbe impatti sul 70% dei Comuni italiani, si sono schierati molti amministratori e rappresentanti locali, i quali ritengono molto probabile che ad un tale scenario corrisponderebbe una perdita di identità, tradizioni, culture dei singoli piccoli centri. E’ un timore condivisibile, senza dubbio. Tuttavia, oggi, ci troviamo di fronte ad un bivio: conservare l’attuale configurazione o provare a costruire delle architetture amministrative più snelle in grado di dare risposte concrete, e al passo coi tempi, ai bisogni dei cittadini. Ricondurre una gestione, dapprima frammentata, sotto enti di dimensioni più significative, potrebbe garantire un miglioramento in termini di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, nonché in termini di quantità e qualità dei servizi erogabili e di governance del territorio, anche nel rapporto con i livelli istituzionali superiori.
In questa sede, per ovvie ragioni, non si può approfondire oltremodo la questione (anche in termini tecnici), ma un punto dev’essere fermo: se si procederà con accorpamenti e fusioni, la scelta dovrà essere di natura strategica, consapevole, assorbita in un tempo congruo dalle comunità. A queste ultime dovrà essere dato il tempo di prepararsi, per percepirne i reali vantaggi, di “aprirsi”, magari con iniziative mirate ad opera delle associazioni, dei movimenti civici e mediante percorsi che, seppur incentivati e promossi, nascano dal basso. Che non sia, insomma, l’ennesimo provvedimento calato dall’alto ed evidentemente destinato all’insuccesso. Si comprenderà, allora, che molte paure sono forse superabili se, come sempre, si mette al centro il cittadino, immaginando quel futuro come il presente di innumerevoli frazioni e borghi che, pur appartenendo allo stesso Comune, mantengono identità, tradizioni e culture, spesso dimostrando, anzi, di saperle valorizzare anche meglio rispetto ai centri di più grandi dimensioni.